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L'atroce morte in miniera


L'atroce morte in miniera come la "leggevano" il poeta e l'ingegnere

Si è celebrata in questi giorni la ricorrenza della sciagura del 1881 a Gessolungo. A confronto un componimento popolare del tempo e la relazione di un tecnico





In questi giorni c'è stata la ricorrenza di uno tra gli incidenti più gravi della storia mineraria, quello verificatosi a Gessolungo il 12 novembre 1881, con i suoi 65 morti: lo si è ricordato nella funzione che puntualmente gli "Amici della Miniera" di Mario Zurli hanno organizzato al locale cimitero dei "carusi", grazie a loro restituito alla dignità della morte, mentre in città continua a mancare un vero e proprio monumento al minatore, con la statua bronzea dello Scarantino che giace ancora inutilizzata in attesa di collocazione; lo si è ricordato nella mostra "Ricordi di miniera" che si conclude oggi a Palazzo del Carmine.
Di quella sciagura sono state tramandate tante testimonianze: tra esse ne abbiamo recuperato due, che abbiamo voluto affiancare proprio per mettere a confronto due modi del tutto diversi di "leggere" quella pagina di morte.
La prima testimonianza è quella di Salvatore Trobia, autore del componimento in versi dialettali dal titolo «Sulla catastrofe successa nella miniera Gessolungo il giorno 12 novembre 1881», stampato in opuscolo in quel finire d'anno dalla tipografia Giacopino all'epoca operante nella Salita Tribunali (odierna Via Matteotti). Trobia si dichiara privo di studio, e dopo una iniziale e lunga invocazione al Padreterno, avverte il lettore di scrivere «cu li cunfusi e rozzi mei pinseri (…) / Manca l'abilità, nni sugnu privu / Ma dannumi l'aiutu Gesù Cristu / Io scrivu tuttu chiddu c'aju vistu»: per cui si desume sia stato testimone oculare dei fatti, soprattutto delle operazioni di soccorso scattate subito dopo l'immane esplosione di grisou che la mattina del 12 novembre aveva seminato morte nelle gallerie della Gessolungo. I suoi sono comunque versi sentiti, appassionati, che fanno ben rivivere l'atmosfera di quei momenti in un lungo componimento formato da ben 35 ottave.
Trobia scrive del momento dell'esplosione, innescata da un picconiere che, sceso in galleria assieme agli altri operai del turno mattutino, con la sua lanterna aveva innescato lo scoppio del grisou. Ecco, in versi, quel tragico momento: «Com'arriva a ddu locu lu mischinu / Si spogghia pri lu surfaru scippari / Metti lu lumi ad un puntu vicinu / Pri quantu lustri ci putissi fari / Comu spinci lu lumi, e poi l'abbassa / D'un subitu lu gas si scunquassa».
La tragedia si compie in tutta la sua drammaticità: «Niscia lu focu peggiu d'un Vulcanu / Chi paisi e cità l'ha divastatu / Lu bottu chi si intisi fu sì stranu / Ca tutta la minera ha ribummatu / (…) Fu tantu lu ribummu e forti puru / Ca tutti dintra ristaru a lu scuru / La furia chi nisciu di ddu Vulcanu / Li pirsuni a li mura stramazzau / Cui nun era dda dintra ristau sanu / Ma cui cc'era dda dintra, dda ristau / Cu' fu cchiu accortu ed avia bona manu / Fu vuliri di Diu si si sarvau / Pirchì essennu ‘mmenzu a fiammi e focu / Si scuraggeru tutti, nun fu un jocu».
L'incendio innescato dall'esplosione, l'aria irrespirabile, le urla dei feriti sottoterra, fanno della Gessolungo un vero inferno: «Li grida, li lamenti e lu sugghiuzzu / Pareva ‘na caverna di turmentu / Cu' grida patri, matri e ccù fratuzzu / Cu' dici dammi ajutu, a nuddu sentu!... / Comu pigghiari un surci dintra un puzzu / Era lu stissu ca cu' ajutu dava / Trasia ‘mmezzu li morti, e ddà arristava».
Trobia prosegue i suoi versi parlando poi dei soccorritori, del loro disperato coraggio, come quello del capomastro Giuseppe Gagliardo che, con il picconiere Giuseppe Diforti, otterranno la medaglia d'argento al valor civile: tali onorificenze, così come le "menzioni onorevoli" per altri soccorritori particolarmente prodigatisi, verranno loro consegnate dal prefetto il 14 marzo 1882, giorno del genetliaco del Re, nel corso di una solenne cerimonia. Quel capomastro «comu un liuni a la caccia, e ccu grann'arti / Va pigghiannu firiti, e metti sparti / Prestu prestu nni tira ‘na trintina / ‘Mmenzu lu focu, li fiammi e lu fumu (…) ».
I versi proseguono nella descrizione del teatro della sventura, così come della disperazione propagatasi a Caltanissetta: «Trasu nni la cità tuttu stunatu / Li grida, ca passari ‘un si putia / Lu paisi era tuttu arribbillatu / Cù patri, cù frati, cù figghi chiancia / Era un campu di morti abbannunatu». Nell'ultima parte del suo componimento, dopo avere ricordato la solidarietà scattata in favore delle famiglie colpite, Trobia dice di essere tornato dopo qualche giorno alla miniera chiusa e di immaginare tutti i morti riuniti in preghiera per chiedere perdono a Dio dei loro peccati.
La seconda testimonianza, come detto, è quella di un tecnico, vale a dire l'ingegnere Cesare Conti all'epoca responsabile del Distretto minerario di Caltanissetta (nonché direttore della Scuola Mineraria da quell'anno e fino al 1889) intervenuto sul luogo del disastro per gli accertamenti del caso, i cui risultati furono da lui riportati in un'articolata relazione datata 20 dicembre 1881: in essa sono descritte minuziosamente la tipologia dell'incidente e le varie fasi degli interventi per il recupero delle vittime e la messa in sicurezza della zolfara.
Quella di Conti non è certo poesia, ma cruda constatazione e ricostruzione di un evento tragico, così come cruda è la testimonianza del ritrovamento delle vittime e la descrizione delle condizioni dei cadaveri. Basti citare alcuni passaggi della sua ispezione nelle gallerie, laddove «… di fronte al picchetto 30 si rinvennero due cadaveri affatto riconoscibili. Poco più lungi si rinvennero pure altri due cadaveri irriconoscibili. Seguitando per la stessa via, incontrammo in mezzo ai rosticci ed allo zolfo fuso un mucchio di membra umane deformi e confuse, che si giudicò appartenere a 4 cadaveri dal numero dei teschi bruciati che vi si rinvennero…».
Dei 49 minatori deceduti sul colpo (gli altri 16 morirono nei giorni seguenti per le gravi ferite) fu possibile - si evince dalla relazione - riconoscerne solo 35: gli altri furono, come s'è visto, smembrati dall'esplosione e comunque resi irriconoscibili anche per la lunga permanenza nelle viscere della zolfara, all'epoca gestita dai fratelli Riccardo e Carmelo Tortorici, che fu subito chiusa dopo l'incidente che innescò un incendio durato diversi giorni. I primi cadaveri furono estratti solo undici giorni dopo lo scoppio del grisou: molti erano di "carusi".

Commenti

  1. Buon giorno... ho trovatpo tale poema (incompleto) in IL FATTO NISSENO n. 11 (Luglio-Dicembre 2012), pagg. 153-155 (sito: https://www.storiapatriacaltanissetta.it/phocadownload/archivio_nisseno/archivio_nisseno_11.pdf) che però attribuisce la stessa opera al poeta Leonardo Insalaco... di codesto Salvatore Trobia non vi è traccia...

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